Storia di una barca che diventò la nostra – Gozzo Italmare 640 [pag. 3]
mimmoox
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Rinnovo i complimenti e attendo la prossima puntata
Bestway mirovia pro 330 + Honda BF15
conat (autore)
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Capitolo 7 – Nuovo Cofano Motore
Veniamo al mio upgrade preferito: il rifacimento completo del cofano motore.
Questo progetto ha richiesto davvero tanto tempo e tanta inventiva. Fortunatamente, questa volta, ho fatto tante foto per documentare tutte le lavorazioni, alcune, spero, interessanti.
Il cofano originale era coperto con la solita tavola di compensato fresato a finte doghe, con il solito legno giallo di bassa qualità a fare da cornice. Col tempo, stando all’aperto, nonostante fosse riverniciato ogni tanto, ha iniziato a scollarsi e sollevarsi. Ho colto l’occasione e mi sono sbarazzato del tutto. Non è stato difficile: era solo incollato con il solito sikaflex.
Il nuovo rivestimento avrebbe seguito il collaudato sistema: compensato marino + listelli di mogano.
Per questo pezzo, tuttavia, essendo così centrale, volevo qualcosa di più artistico. Le nostre barche non hanno mai avuto nomi. Troppa gente da mettere d’accordo, quindi, per non scontentare nessuno, non abbiamo mai deciso un nome. Quindi, volevo che questo lavoro fosse un po’ la mia firma sulla barca, che la rendesse diversa da tutte le altre, appunto, come se fosse il suo nome.
Qualche anno prima avevo preso su ebay una decina di listelli di teak. Troppo pochi per farci qualsiasi cosa, erano rimasti lì. Mi venne l’idea di usarli a contrasto con il mogano. Ora, non che il teak contrasti poi così tanto col mogano, soprattutto dopo aver preso un po’di luce, ma tant’è…fate finta che sia così.
Questo era il progetto:
Un po’ banale, lo so, ma per me la rosa dei venti rimane uno dei simboli marinareschi più affascinanti ed iconici…e poi mi serviva pur sempre qualcosa di geometrico, non avendo accesso ad una CNC.
Ovviamente, la Rosa è stata fatta coi listelli in teak, per il resto ho usato il mogano. Per eseguire i tagli precisi ho usato il solito metodo dello smeriglio che scontra su una riga di ferro. Soltanto per eseguire la fuga tonda intorno alla Rosa ho usato una fresatrice verticale collegata a compasso col centro della Rosa. Anche questa volta, in un paio di punti ha preso la via e ha sbavato il taglio. Non sono un granché ad usare la fresatrice. Tra l’altro in quell’occasione una grossa scheggia di legno passo sotto gli occhiali e mi finì in un occhio. Vi risparmio il delirio nel cercare un oculista aperto nella prima settimana di lockdown. Da allora quando la fresatrice metto gli occhialini da nuoto per isolare completamente gli occhi.
Ovviamente, il solito TD SIS 440 per i comenti.
Ed eccola in posa:
Ho anche tolto quell’orribile presa d’aria di plastica, sostituita con una inox, e ovviamente la maniglia, anche quella sostituita con una più filante, sempre inox.
Più interessante invece la sostituzione della luce. Quella specie di borchia ad oblò è stata la prima cosa ad essere smontata. Va bene la tradizione, ma a tutto c’è un limite. Volevo qualcosa di questo secolo, e sposare le linee vintage ad un tocco moderno con dei profili led, come sulle barche sportive. Ho trovato sul catalogo osculati questi:
Sono delle strisce led pronte all’uso, 12V, totalmente affogate nel silicone, quindi impermeabili. Volevo incassarle sotto alla cornice, in modo che dessero luce al pozzetto senza vedersi. Sarebbe stato bello metterle tutt’intorno, ma non sono proprio economiche, ero povero (lo sono ancora in realtà) avendo già speso una discreta cifra delle mie paghette, quindi presi la confezione da 2 m e ne piazzai un metro per ogni lato lungo. L’effetto in notturna è molto suggestivo. Assolutamente inutile, ma veramente suggestivo.
Adesso, bisognava sistemare il quadro strumenti. Quello originale era brutto e poco funzionale. E faceva acqua. Ma visto che il capitolo è già lungo così, e, soprattutto, per non sovraccaricarlo di foto, ne parlerò in un altro post.
Veniamo al mio upgrade preferito: il rifacimento completo del cofano motore.
Questo progetto ha richiesto davvero tanto tempo e tanta inventiva. Fortunatamente, questa volta, ho fatto tante foto per documentare tutte le lavorazioni, alcune, spero, interessanti.
Il cofano originale era coperto con la solita tavola di compensato fresato a finte doghe, con il solito legno giallo di bassa qualità a fare da cornice. Col tempo, stando all’aperto, nonostante fosse riverniciato ogni tanto, ha iniziato a scollarsi e sollevarsi. Ho colto l’occasione e mi sono sbarazzato del tutto. Non è stato difficile: era solo incollato con il solito sikaflex.
Il nuovo rivestimento avrebbe seguito il collaudato sistema: compensato marino + listelli di mogano.
Per questo pezzo, tuttavia, essendo così centrale, volevo qualcosa di più artistico. Le nostre barche non hanno mai avuto nomi. Troppa gente da mettere d’accordo, quindi, per non scontentare nessuno, non abbiamo mai deciso un nome. Quindi, volevo che questo lavoro fosse un po’ la mia firma sulla barca, che la rendesse diversa da tutte le altre, appunto, come se fosse il suo nome.
Qualche anno prima avevo preso su ebay una decina di listelli di teak. Troppo pochi per farci qualsiasi cosa, erano rimasti lì. Mi venne l’idea di usarli a contrasto con il mogano. Ora, non che il teak contrasti poi così tanto col mogano, soprattutto dopo aver preso un po’di luce, ma tant’è…fate finta che sia così.
Questo era il progetto:
Un po’ banale, lo so, ma per me la rosa dei venti rimane uno dei simboli marinareschi più affascinanti ed iconici…e poi mi serviva pur sempre qualcosa di geometrico, non avendo accesso ad una CNC.
Ovviamente, la Rosa è stata fatta coi listelli in teak, per il resto ho usato il mogano. Per eseguire i tagli precisi ho usato il solito metodo dello smeriglio che scontra su una riga di ferro. Soltanto per eseguire la fuga tonda intorno alla Rosa ho usato una fresatrice verticale collegata a compasso col centro della Rosa. Anche questa volta, in un paio di punti ha preso la via e ha sbavato il taglio. Non sono un granché ad usare la fresatrice. Tra l’altro in quell’occasione una grossa scheggia di legno passo sotto gli occhiali e mi finì in un occhio. Vi risparmio il delirio nel cercare un oculista aperto nella prima settimana di lockdown. Da allora quando la fresatrice metto gli occhialini da nuoto per isolare completamente gli occhi.
Ovviamente, il solito TD SIS 440 per i comenti.
Ed eccola in posa:
Ho anche tolto quell’orribile presa d’aria di plastica, sostituita con una inox, e ovviamente la maniglia, anche quella sostituita con una più filante, sempre inox.
Più interessante invece la sostituzione della luce. Quella specie di borchia ad oblò è stata la prima cosa ad essere smontata. Va bene la tradizione, ma a tutto c’è un limite. Volevo qualcosa di questo secolo, e sposare le linee vintage ad un tocco moderno con dei profili led, come sulle barche sportive. Ho trovato sul catalogo osculati questi:
Sono delle strisce led pronte all’uso, 12V, totalmente affogate nel silicone, quindi impermeabili. Volevo incassarle sotto alla cornice, in modo che dessero luce al pozzetto senza vedersi. Sarebbe stato bello metterle tutt’intorno, ma non sono proprio economiche, ero povero (lo sono ancora in realtà) avendo già speso una discreta cifra delle mie paghette, quindi presi la confezione da 2 m e ne piazzai un metro per ogni lato lungo. L’effetto in notturna è molto suggestivo. Assolutamente inutile, ma veramente suggestivo.
Adesso, bisognava sistemare il quadro strumenti. Quello originale era brutto e poco funzionale. E faceva acqua. Ma visto che il capitolo è già lungo così, e, soprattutto, per non sovraccaricarlo di foto, ne parlerò in un altro post.
Levante Ligure
Gozzo Italmare 640
Gozzo Italmare 640
DoubleSix
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Attendo con impazienza il capitolo 8
Marino Gabry 550 -Mercury Optimax 90
Angelo Molinari 465v - Suzuki DT25
Boston Whaler 13 - Mercury 50
Quello che non c’è non si rompe
Angelo Molinari 465v - Suzuki DT25
Boston Whaler 13 - Mercury 50
Quello che non c’è non si rompe
conat (autore)
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Capitolo 7bis – Nuovo Quadro Strumenti
Come ho detto, il vecchio quadro strumenti era brutto ed era già totalmente occupato dalla strumentazione, mentre noi volevamo aggiungere l’ecoscandaglio fisso, senza ogni volta doverlo staccarlo e connetterlo (il Garmin, che avete visto nella foto pre-lavori, era saltato proprio perché si erano danneggiati i connettori sulla scheda madre).
Quindi è stato smontato per avere a disposizione un foglio bianco.
Un paio di fogli di stuoia e stucco a rasare.
Questa era l’idea originaria:
a penna ciò che sarebbe stato montato, a matita quello che avrebbe potuto esserlo.
Questa disposizione significava un nuovo pannello per riparare tutta la strumentazione da acqua e schizzi vari. Ho scelto di disporre un grande pannello in plexiglass chiaro che coprisse tutta la superficie, incernierato a 180 gradi che potesse poi appoggiarsi sui listelli una volta ribaltato.
Naturalmente, non è che io sia un genio e quelli del cantiere fossero completamente stupidi, anzi. Infatti, uno dei motivi per cui era stata usata la soluzione di incassare tutto il quadro era lasciare lo spazio per le chiavi inserite, caratteristica che volevo mantenere per poter tenere abbassata la copertura in plexiglass durante l’utilizzo. Pertanto, non mi restava altro che incassare solo il pannello del motore. Ho scelto di disporlo su una cornice in mogano, fresata da un avanzo di massello pieno che avevo:
Quindi nuovo aggiornamento del progetto:
Nel frattempo, di versione in versione, avevo raggruppato le varie prese 12V, USB e voltmetro in unico strumento, soluzione sicuramente più pulita e gradevole:
Ho poi aggiunto due piccole prese d’aria inox per l’aerazione.
Infine, per reggere l’ecoscandaglio in posizione ho creato questo supporto interno inox:
Lateralmente, due piccoli listelli servivano a far poggiare il pannello di plexiglass in maniera omogenea, in modo da evitare curvature, e tenerlo sollevato quel tanto da farci stare le chiavi inserite al di sotto. Una pitturata di bianco ed ecco il nuovo quadro montato:
Come mi hanno fatto notare, la cornicetta di mogano del pannello di controllo del motore, con quella guarnizione di sigillante nero, faceva schifo. Pertanto, vai di fresa e appronta una nuova cornice di copertura. Risultato decisamente migliore:
Tutti gli inserti in mogano sono stati verniciati a flatting lucido.
Da ultimo, visto che avevo già avuto brutte esperienze con l’invecchiamento dei legni, ed io alla mia Rosa ci tenevo, (ma soprattutto perché il pannello di plexiglas era una semplice protezione, non rendeva impermeabile la strumentazione) mi sono “cucito” una copertura. Con l’esperienza appresa nel riattaccare i tubolari al mio vecchio tender Arimar (c’è un topic dedicato) ho sagomato un foglio di PVC, l’ho saldato con la colla Adegrip e poi ci ho fatto mettere dei bottoni automatici (rigorosamente inox) da un calzolaio.
Quindi, per concludere l'intero capitolo 7, avete visto un paio di foto prima il quadro strumenti definitivo, ed ecco invece il cofano completo:
Come ho detto, il vecchio quadro strumenti era brutto ed era già totalmente occupato dalla strumentazione, mentre noi volevamo aggiungere l’ecoscandaglio fisso, senza ogni volta doverlo staccarlo e connetterlo (il Garmin, che avete visto nella foto pre-lavori, era saltato proprio perché si erano danneggiati i connettori sulla scheda madre).
Quindi è stato smontato per avere a disposizione un foglio bianco.
Un paio di fogli di stuoia e stucco a rasare.
Questa era l’idea originaria:
a penna ciò che sarebbe stato montato, a matita quello che avrebbe potuto esserlo.
Questa disposizione significava un nuovo pannello per riparare tutta la strumentazione da acqua e schizzi vari. Ho scelto di disporre un grande pannello in plexiglass chiaro che coprisse tutta la superficie, incernierato a 180 gradi che potesse poi appoggiarsi sui listelli una volta ribaltato.
Naturalmente, non è che io sia un genio e quelli del cantiere fossero completamente stupidi, anzi. Infatti, uno dei motivi per cui era stata usata la soluzione di incassare tutto il quadro era lasciare lo spazio per le chiavi inserite, caratteristica che volevo mantenere per poter tenere abbassata la copertura in plexiglass durante l’utilizzo. Pertanto, non mi restava altro che incassare solo il pannello del motore. Ho scelto di disporlo su una cornice in mogano, fresata da un avanzo di massello pieno che avevo:
Quindi nuovo aggiornamento del progetto:
Nel frattempo, di versione in versione, avevo raggruppato le varie prese 12V, USB e voltmetro in unico strumento, soluzione sicuramente più pulita e gradevole:
Ho poi aggiunto due piccole prese d’aria inox per l’aerazione.
Infine, per reggere l’ecoscandaglio in posizione ho creato questo supporto interno inox:
Lateralmente, due piccoli listelli servivano a far poggiare il pannello di plexiglass in maniera omogenea, in modo da evitare curvature, e tenerlo sollevato quel tanto da farci stare le chiavi inserite al di sotto. Una pitturata di bianco ed ecco il nuovo quadro montato:
Come mi hanno fatto notare, la cornicetta di mogano del pannello di controllo del motore, con quella guarnizione di sigillante nero, faceva schifo. Pertanto, vai di fresa e appronta una nuova cornice di copertura. Risultato decisamente migliore:
Tutti gli inserti in mogano sono stati verniciati a flatting lucido.
Da ultimo, visto che avevo già avuto brutte esperienze con l’invecchiamento dei legni, ed io alla mia Rosa ci tenevo, (ma soprattutto perché il pannello di plexiglas era una semplice protezione, non rendeva impermeabile la strumentazione) mi sono “cucito” una copertura. Con l’esperienza appresa nel riattaccare i tubolari al mio vecchio tender Arimar (c’è un topic dedicato) ho sagomato un foglio di PVC, l’ho saldato con la colla Adegrip e poi ci ho fatto mettere dei bottoni automatici (rigorosamente inox) da un calzolaio.
Quindi, per concludere l'intero capitolo 7, avete visto un paio di foto prima il quadro strumenti definitivo, ed ecco invece il cofano completo:
Levante Ligure
Gozzo Italmare 640
Gozzo Italmare 640
newfoundlander73
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Complimenti tutto molto molto bello e curato ! Sono le cose che danno la maggior soddisfazione.
ex - Honwave T30 , Yamaha 6CV 4T
ex -Arkos 507 Honda BF40A 4T
Marinello Fisherman 19 - Mercury 100 EFI
ex -Arkos 507 Honda BF40A 4T
Marinello Fisherman 19 - Mercury 100 EFI
conat (autore)
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Capitolo 8 – Rivestimento Sportello Centrale
Da quando ho iniziato a sostituire il compensato fresato con i veri listelli in mogano, avevo come obbiettivo il rivestire tutti gli sportelli, primo fra tutti quello centrale, il più grande e il più in vista oltre al cofano motore. Avendo già messo su quest’ultimo la variazione stilistica della rosa dei venti, per lo sportello centrale mi sono attenuto a un rivestimento classico.
Originariamente aveva montato una grossa chiusura che prevedeva l’alloggiamento del lucchetto al suo interno. Per ospitarla avevano fatto un foro gigante. Inutile dire che perdeva come un colabrodo. Fu smontata e sostituita da un tappo con un lucchetto esterno quasi subito. Ma negli anni l’acqua entrata aveva fatto i suoi danni. E qui si ha un’idea di quello che vedrà anche col ponte:
un mosaico di tavolette di compensato. Le hanno messe ovunque.
Notare come siano lucide: erano completamente intorsate d’acqua. Lo sportello pesava un accidente.
Via tutto. Smantellate completamente.
Per ripristinare la solidità (bisognava pur camminarci sopra) ho laminato con 3 o 4 fogli di mat e stuoia.
Con una base solida si poteva quindi iniziare il rivestimento.
Per prima cosa ho portato a livello omogeneo tutta la superficie (le strisce in prossimità dei bordi erano più basse di qualche mm) resinando delle strisce di mat di altezza opportuna.
Poi ho disposto la cornice, per avere una base di riferimento. Procedevo a due listelli per volta: un po’ perché in questa barca non c’è una cosa che sia simmetrica, tutti i lati sono diversi, quindi ogni volta bisogna verificare gli allineamenti ed eventualmente correggere qualche distanza in modo da ingannare l’occhio…e un po’ perché non avevo abbastanza morsetti!
Una volta fissata la cornice, si sceglie se mettere al centro un listello o una fuga, a seconda di quanto spazio fa rimanere quando si arriva alla cornice. In questo caso tornava meglio mettere un listello.
Usato il primo come guida, si mettono tutti gli altri listelli, sempre due a due, con spessori nello spazio della fuga e dei fermi (in questo caso viti e rondelle) per farli aderire. Naturalmente, tutto questo non sarebbe necessario in un cantiere/falegnameria che ha a disposizione listelli con una scanalatura per i comenti (che si possono accostare uno contro l’altro), e soprattutto che siano listelli dritti. Io non avevo nessuno dei due: la fuga dovevo crearmela con la spaziatura fra i listelli e il legno, che era stato segato ormai da un po’di tempo, iniziava a svergolarsi, quindi ogni listello doveva essere incollato tenuto da viti e scontri per fare in modo che rimanesse diritto.
Una volta completata la listellatura, la prima prova a secco in posizione:
Ora viene la parte difficile: dato che lo sportello era quasi dritto, e il ponte incurvato, la differenza fra la il portello e la cornice era più dello spessore del legno. Quindi non si poteva limare.
Ho usato nuovamente resinato delle strisce di mat per creare lo spessore adatto. Sarò sincero, neanche mi ricordo come abbia fatto a farle così verticali. Anche guardando le foto non riesco a capire cosa ho usato come stampo.
A questo punto, avevo ridotto la differenza (negativa o positiva a seconda dei punti) a qualche mm. Ora sì che si poteva limare.
Per un vezzo, ho voluto che lo spazio fra sportello e ponte fosse precisamente uguale ad una fuga, pertanto, ho arrotondato pure gli angoli esterni.
Come ultimo tocco, un po’per mascherare alcuni sbaffi della resinatura, un po’ perché in tutta la barca il diamantato non arriva mai contro gli sportelli, ma è sempre preceduto da uno spazio liscio, ho stuccato tutto intorno alla cornice.
Già che c'ero, ho sostituito la molla pneumatica arrugginita con una inox, che scompare dentro la canala di scolo senza ingombrare il passaggio come faceva quella precedente, e ho verniciato a poliuretanica il retro.
Alcuni dettagli:
L’effetto complessivo alla fine è notevole:
Alla prossima!
Da quando ho iniziato a sostituire il compensato fresato con i veri listelli in mogano, avevo come obbiettivo il rivestire tutti gli sportelli, primo fra tutti quello centrale, il più grande e il più in vista oltre al cofano motore. Avendo già messo su quest’ultimo la variazione stilistica della rosa dei venti, per lo sportello centrale mi sono attenuto a un rivestimento classico.
Originariamente aveva montato una grossa chiusura che prevedeva l’alloggiamento del lucchetto al suo interno. Per ospitarla avevano fatto un foro gigante. Inutile dire che perdeva come un colabrodo. Fu smontata e sostituita da un tappo con un lucchetto esterno quasi subito. Ma negli anni l’acqua entrata aveva fatto i suoi danni. E qui si ha un’idea di quello che vedrà anche col ponte:
un mosaico di tavolette di compensato. Le hanno messe ovunque.
Notare come siano lucide: erano completamente intorsate d’acqua. Lo sportello pesava un accidente.
Via tutto. Smantellate completamente.
Per ripristinare la solidità (bisognava pur camminarci sopra) ho laminato con 3 o 4 fogli di mat e stuoia.
Con una base solida si poteva quindi iniziare il rivestimento.
Per prima cosa ho portato a livello omogeneo tutta la superficie (le strisce in prossimità dei bordi erano più basse di qualche mm) resinando delle strisce di mat di altezza opportuna.
Poi ho disposto la cornice, per avere una base di riferimento. Procedevo a due listelli per volta: un po’ perché in questa barca non c’è una cosa che sia simmetrica, tutti i lati sono diversi, quindi ogni volta bisogna verificare gli allineamenti ed eventualmente correggere qualche distanza in modo da ingannare l’occhio…e un po’ perché non avevo abbastanza morsetti!
Una volta fissata la cornice, si sceglie se mettere al centro un listello o una fuga, a seconda di quanto spazio fa rimanere quando si arriva alla cornice. In questo caso tornava meglio mettere un listello.
Usato il primo come guida, si mettono tutti gli altri listelli, sempre due a due, con spessori nello spazio della fuga e dei fermi (in questo caso viti e rondelle) per farli aderire. Naturalmente, tutto questo non sarebbe necessario in un cantiere/falegnameria che ha a disposizione listelli con una scanalatura per i comenti (che si possono accostare uno contro l’altro), e soprattutto che siano listelli dritti. Io non avevo nessuno dei due: la fuga dovevo crearmela con la spaziatura fra i listelli e il legno, che era stato segato ormai da un po’di tempo, iniziava a svergolarsi, quindi ogni listello doveva essere incollato tenuto da viti e scontri per fare in modo che rimanesse diritto.
Una volta completata la listellatura, la prima prova a secco in posizione:
Ora viene la parte difficile: dato che lo sportello era quasi dritto, e il ponte incurvato, la differenza fra la il portello e la cornice era più dello spessore del legno. Quindi non si poteva limare.
Ho usato nuovamente resinato delle strisce di mat per creare lo spessore adatto. Sarò sincero, neanche mi ricordo come abbia fatto a farle così verticali. Anche guardando le foto non riesco a capire cosa ho usato come stampo.
A questo punto, avevo ridotto la differenza (negativa o positiva a seconda dei punti) a qualche mm. Ora sì che si poteva limare.
Per un vezzo, ho voluto che lo spazio fra sportello e ponte fosse precisamente uguale ad una fuga, pertanto, ho arrotondato pure gli angoli esterni.
Come ultimo tocco, un po’per mascherare alcuni sbaffi della resinatura, un po’ perché in tutta la barca il diamantato non arriva mai contro gli sportelli, ma è sempre preceduto da uno spazio liscio, ho stuccato tutto intorno alla cornice.
Già che c'ero, ho sostituito la molla pneumatica arrugginita con una inox, che scompare dentro la canala di scolo senza ingombrare il passaggio come faceva quella precedente, e ho verniciato a poliuretanica il retro.
Alcuni dettagli:
L’effetto complessivo alla fine è notevole:
Alla prossima!
Levante Ligure
Gozzo Italmare 640
Gozzo Italmare 640
conat (autore)
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Capitolo 9 – Un mosaico in barca
Torniamo ad occuparci di (serie) magagne strutturali.
Già dalla prima ispezione a Genova mi ero reso conto che qualcosa non andava col ponte, anche se non avevo compreso le reali dimensioni del problema. Usandola una stagione intera, avevamo capito che la coperta, specialmente nella zona del pozzetto, oltre ad essere delaminato, cedeva proprio, in alcuni punti di qualche centimetro. Ho già mostrato le precarie strutture che cercavano di tamponare, sanza successo alcuno, il problema. Quindi, questa fu la prima area di intervento.
L’idea era inserire dei bagli, fissati ai paramezzali, che sostenessero il ponte, andando a “comprimere” la laminazione della VTR in modo che non scricchiolasse più. Adesso mi rendo conto che, almeno quest’ultima parte, era pura fantascienza anche solo pensarla.
L’ostacolo erano gli spazi: non ce n’erano. Avevamo letteralmente qualche spanna qua e là, intorno al motore, per far passare delle tavole di legno. La cosa più intelligente e, forse, anche più rapida, sarebbe stata sbarcare il motore, lavorare alla struttura con comodo, e poi rimontarlo. All’epoca non avevamo l’esperienza che abbiamo adesso, ci sembrava un lavoro sovrumano, e poi avevamo tanti altri lavori (tipo gli ombrinali) ugualmente importanti. Saltare una stagione non era un’opzione.
In breve, dato che non è una parte molto interessante e non ho foto a riguardo: abbiamo sollevato di qualche millimetro il ponte con due martinetti, inserito sottocoperta una serie di tavole, che montavamo sui paramezzali direttamente in posizione, e poi fatto scendere nuovamente il ponte su di esse. Ovviamente il tutto resinato e avvitato. Dal punto di vista strutturale, a questo punto, il ponte era fermo e solido, anche se, naturalmente, lo scricchiolio dovuto alla delaminazione era ancora presente. Tutt’ora mi chiedo se sia stato un buon lavoro o meno, vincolare rigidamente due parti che dovrebbero muoversi l’una rispetto all’altra. Sicuramente, quantomeno, è stato efficace.
Veniamo alla scorsa stagione: ho deciso di affrontare il problema e cercare di risolverlo una volta per tutte. Il campanello d’allarme definitivo lo fece scattare proprio il rifacimento dello sportello centrale, quando ho scoperto che il sandwich era fatto da quelle piastrelle, che oltretutto si erano bagnate. Quindi ho deciso di aprire:
Fortunatamente, nonostante i fori che avevano fatto in coperta, il legno non si era bagnato. Ora, io non so se sia il metodo corretto usare questi quadretti di compensato per fare un sandwich. Per quel che ne so io no, ma magari sbaglio. In ogni caso, il lavoro è stato fatto, per usare un eufemismo, a membro di segugio. Per distaccare la fibra di vetro non ho dovuto fare alcuno sforzo: una volta tagliata con il disco è venuta via senza problemi. E tante mattonelle non erano attaccate nemmeno al foglio di VTR sottostante. Capisco che la resina costi, ma a questo ponte gliel’hanno fatta vedere col binocolo.
A poppa oltretutto c’era uno strato di questa sostanza gommosa (altro sikaflex?) fra la fibra di vetro e le mattonelle.
Non so se sia stata “iniettata” a posteriori nel (vano) tentativo di ridurre lo scricchiolio derivato dal cedimento del ponte e dalla conseguente bolla d’aria che si formava fra VTR e compensato. Anche qui si possono vedere mattonelle completamente distaccate e galleggianti. Le viti che si vedono sono quelle che tenevano il ponte alle assi di rinforzo e sostegno che abbiamo messo noi il primo anno.
Qui bisognava prendere una decisione: che fare?
Ci è passato per la mente persino di tagliare via tutto e rifare completamente il ponte ripartendo dai bagli. Ma voleva dire rifare letteralmente la barca. Io avevo proposto di togliere tutte le mattonelle e sostituirle con della fibra di vetro, un po’ come avevo fatto per il portello di cui sopra. Magari inserendo in mezzo un alveolare per alleggerire la struttura. Ma i costi e i tempi sarebbero stati proibitivi. Mio zio suggerì di colare resina finché tutte le fughe non fossero piene e anche per reincollare tutte le mattonelle, e poi rimetterci lo strato finale di VTR, una lamina di 3-4 mm, con uno strato pesante di mat fra quest’ultima e il compensato, per andare ad “ammortizzare” i vari dislivelli. Per fare in modo che ci fosse la massima aderenza fra questo strato e il legno, abbiamo steso un reticolo di viti autofilettanti a testa svasata, a distanza di circa 15-20 cm. Fra ogni vite un foro vuoto per far sfiatare l’aria: quando usciva la resina significava che il sottostante era pieno e senza bolle.
Abbiamo fatto un pezzo di ponte alla volta: tolta la VTR, inciso il compensato con lo smeriglio (per far camminare e diffondere meglio la resina), allagato con la resina, steso il mat, ricollocato il pezzo originale di VTR e avvitato, dal centro verso l’esterno.
La grande scommessa fu che nello strato sottostante non ci fossero buchi, altrimenti tutta la resina che versavamo sarebbe finita in sentina. Fortunatamente, ci è andata bene.
Probabilmente, raccontato così sembra un lavoro un po’ raffazzonato. Ed effettivamente ci sarebbero stati metodi migliori e più professionali. Ma questo alla fine è stato un buon compromesso fra costi, benefici e tempi di realizzazione. Insomma, minima spesa, massima resa. E sono lieto di poter dire che ha funzionato alla grande. Il ponte adesso non solo non scricchiola più, ma è molto più solido, legato, pur mantenendo la sua elasticità.
Risolto il problema strutturale, bisognava sistemare la questione estetica. Adesso il ponte sembrava crivellato di proiettili. Quindi andava rivestito. Il legno era fuori discussione per tante buone ragioni: lo avevo finito, sarebbe costato davvero uno sproposito, tempi di posa lunghissimi, e avrebbe appesantito tantissimo la barca. E non solo in termini di kg, ma anche a livello estetico. Il troppo stroppia. A me piace il contrasto che fanno i vari inserti e sportelli in mogano rosso sul bianco del gelcoat, quindi avrei voluto ripristinare il diamantato antiscivolo. Mio zio propendeva per un rivestimento in EVA. Ho fatto qualche simulazione:
Non posso decidere sempre tutto io, quindi alla fine ha vinto il finto teak.
In questo caso, sono felice di essermi sbagliato. Per quanto a livello di mera estetica continuo ad avere le mie riserve (sembra davvero molto “finto”, soprattutto confrontato al legno vero, che sul bianco risaltava molto di più) dal punto di vista della comodità vince 3-0 a tavolino. È davvero un piacere camminarci a piedi scalzi, non scalda, si pulisce bene, ha tenuto bene il colore e anche l’adesione. E dire che è uno di quei rotoli autoadesivi cinesissimi comprati su Aliexpress. Alla fine, anche in questo, rapporto spesa-tempo-resa assolutamente vincente.
Naturalmente, prima di posarlo abbiamo stuccato tutto il ponte, altrimenti l’adesivo non attacca.
E poi bisogna realizzare una dima molto precisa per non fare cavolate durante il taglio.
Ed ecco qui il risultato:
Torniamo ad occuparci di (serie) magagne strutturali.
Già dalla prima ispezione a Genova mi ero reso conto che qualcosa non andava col ponte, anche se non avevo compreso le reali dimensioni del problema. Usandola una stagione intera, avevamo capito che la coperta, specialmente nella zona del pozzetto, oltre ad essere delaminato, cedeva proprio, in alcuni punti di qualche centimetro. Ho già mostrato le precarie strutture che cercavano di tamponare, sanza successo alcuno, il problema. Quindi, questa fu la prima area di intervento.
L’idea era inserire dei bagli, fissati ai paramezzali, che sostenessero il ponte, andando a “comprimere” la laminazione della VTR in modo che non scricchiolasse più. Adesso mi rendo conto che, almeno quest’ultima parte, era pura fantascienza anche solo pensarla.
L’ostacolo erano gli spazi: non ce n’erano. Avevamo letteralmente qualche spanna qua e là, intorno al motore, per far passare delle tavole di legno. La cosa più intelligente e, forse, anche più rapida, sarebbe stata sbarcare il motore, lavorare alla struttura con comodo, e poi rimontarlo. All’epoca non avevamo l’esperienza che abbiamo adesso, ci sembrava un lavoro sovrumano, e poi avevamo tanti altri lavori (tipo gli ombrinali) ugualmente importanti. Saltare una stagione non era un’opzione.
In breve, dato che non è una parte molto interessante e non ho foto a riguardo: abbiamo sollevato di qualche millimetro il ponte con due martinetti, inserito sottocoperta una serie di tavole, che montavamo sui paramezzali direttamente in posizione, e poi fatto scendere nuovamente il ponte su di esse. Ovviamente il tutto resinato e avvitato. Dal punto di vista strutturale, a questo punto, il ponte era fermo e solido, anche se, naturalmente, lo scricchiolio dovuto alla delaminazione era ancora presente. Tutt’ora mi chiedo se sia stato un buon lavoro o meno, vincolare rigidamente due parti che dovrebbero muoversi l’una rispetto all’altra. Sicuramente, quantomeno, è stato efficace.
Veniamo alla scorsa stagione: ho deciso di affrontare il problema e cercare di risolverlo una volta per tutte. Il campanello d’allarme definitivo lo fece scattare proprio il rifacimento dello sportello centrale, quando ho scoperto che il sandwich era fatto da quelle piastrelle, che oltretutto si erano bagnate. Quindi ho deciso di aprire:
Fortunatamente, nonostante i fori che avevano fatto in coperta, il legno non si era bagnato. Ora, io non so se sia il metodo corretto usare questi quadretti di compensato per fare un sandwich. Per quel che ne so io no, ma magari sbaglio. In ogni caso, il lavoro è stato fatto, per usare un eufemismo, a membro di segugio. Per distaccare la fibra di vetro non ho dovuto fare alcuno sforzo: una volta tagliata con il disco è venuta via senza problemi. E tante mattonelle non erano attaccate nemmeno al foglio di VTR sottostante. Capisco che la resina costi, ma a questo ponte gliel’hanno fatta vedere col binocolo.
A poppa oltretutto c’era uno strato di questa sostanza gommosa (altro sikaflex?) fra la fibra di vetro e le mattonelle.
Non so se sia stata “iniettata” a posteriori nel (vano) tentativo di ridurre lo scricchiolio derivato dal cedimento del ponte e dalla conseguente bolla d’aria che si formava fra VTR e compensato. Anche qui si possono vedere mattonelle completamente distaccate e galleggianti. Le viti che si vedono sono quelle che tenevano il ponte alle assi di rinforzo e sostegno che abbiamo messo noi il primo anno.
Qui bisognava prendere una decisione: che fare?
Ci è passato per la mente persino di tagliare via tutto e rifare completamente il ponte ripartendo dai bagli. Ma voleva dire rifare letteralmente la barca. Io avevo proposto di togliere tutte le mattonelle e sostituirle con della fibra di vetro, un po’ come avevo fatto per il portello di cui sopra. Magari inserendo in mezzo un alveolare per alleggerire la struttura. Ma i costi e i tempi sarebbero stati proibitivi. Mio zio suggerì di colare resina finché tutte le fughe non fossero piene e anche per reincollare tutte le mattonelle, e poi rimetterci lo strato finale di VTR, una lamina di 3-4 mm, con uno strato pesante di mat fra quest’ultima e il compensato, per andare ad “ammortizzare” i vari dislivelli. Per fare in modo che ci fosse la massima aderenza fra questo strato e il legno, abbiamo steso un reticolo di viti autofilettanti a testa svasata, a distanza di circa 15-20 cm. Fra ogni vite un foro vuoto per far sfiatare l’aria: quando usciva la resina significava che il sottostante era pieno e senza bolle.
Abbiamo fatto un pezzo di ponte alla volta: tolta la VTR, inciso il compensato con lo smeriglio (per far camminare e diffondere meglio la resina), allagato con la resina, steso il mat, ricollocato il pezzo originale di VTR e avvitato, dal centro verso l’esterno.
La grande scommessa fu che nello strato sottostante non ci fossero buchi, altrimenti tutta la resina che versavamo sarebbe finita in sentina. Fortunatamente, ci è andata bene.
Probabilmente, raccontato così sembra un lavoro un po’ raffazzonato. Ed effettivamente ci sarebbero stati metodi migliori e più professionali. Ma questo alla fine è stato un buon compromesso fra costi, benefici e tempi di realizzazione. Insomma, minima spesa, massima resa. E sono lieto di poter dire che ha funzionato alla grande. Il ponte adesso non solo non scricchiola più, ma è molto più solido, legato, pur mantenendo la sua elasticità.
Risolto il problema strutturale, bisognava sistemare la questione estetica. Adesso il ponte sembrava crivellato di proiettili. Quindi andava rivestito. Il legno era fuori discussione per tante buone ragioni: lo avevo finito, sarebbe costato davvero uno sproposito, tempi di posa lunghissimi, e avrebbe appesantito tantissimo la barca. E non solo in termini di kg, ma anche a livello estetico. Il troppo stroppia. A me piace il contrasto che fanno i vari inserti e sportelli in mogano rosso sul bianco del gelcoat, quindi avrei voluto ripristinare il diamantato antiscivolo. Mio zio propendeva per un rivestimento in EVA. Ho fatto qualche simulazione:
Non posso decidere sempre tutto io, quindi alla fine ha vinto il finto teak.
In questo caso, sono felice di essermi sbagliato. Per quanto a livello di mera estetica continuo ad avere le mie riserve (sembra davvero molto “finto”, soprattutto confrontato al legno vero, che sul bianco risaltava molto di più) dal punto di vista della comodità vince 3-0 a tavolino. È davvero un piacere camminarci a piedi scalzi, non scalda, si pulisce bene, ha tenuto bene il colore e anche l’adesione. E dire che è uno di quei rotoli autoadesivi cinesissimi comprati su Aliexpress. Alla fine, anche in questo, rapporto spesa-tempo-resa assolutamente vincente.
Naturalmente, prima di posarlo abbiamo stuccato tutto il ponte, altrimenti l’adesivo non attacca.
E poi bisogna realizzare una dima molto precisa per non fare cavolate durante il taglio.
Ed ecco qui il risultato:
Levante Ligure
Gozzo Italmare 640
Gozzo Italmare 640
sergetto
1
- 28/32
I quadretti si utilizzano per realizzare il core (anima) dei sandwich di superfici a doppia curvatura, sia il core che il sistema costituito da core più pelli, deve però risultare assolutamente monolitico. Se così non è il sandwich non lavora come tale. Quindi bene riempire gli interstizzi, e bene il mat impregnato per garantire la adesione tra le fibre esterne e l'anima. In un pannello il tessuto più esterno dovrebbe essere almeno uno e bidirezionale. La funzione del core è quella di assorbire lo sforzo di taglio ed eventualmente quelli di compressione (se adatto all'uopo), cosa che le pelli non sono in grado di fare.
conat (autore)
3
- 29/32
Capitolo 10 – Capodibanda
La vecchia barca aveva un bellissimo capodibanda in mogano (che aveva realizzato proprio mio nonno), che culminava su un dritto di prora tipico dei gozzi liguri (che io un giorno ho stroncato piantandomi dritto in banchina, ma questa è un’altra storia…). Essendo verniciato a flatting, ogni anno andava sverniciato con la pistola termica, carteggiato, e poi date almeno 2 mani, meglio 3, di flatting nuovo. Mio nonno, mettici l’età, mettici l’abitudine, non ne aveva più voglia, e giurava ogni volta che se mai avessimo cambiato barca, avrebbe dovuto essere solo “di plastica”. 0 legno.
Per me, invece, preparare la barca prima di ogni stagione è una parte fondamentale di questa passione tanto quanto l’andare per mare stesso. Lo avrete capito dai numerosi interventi che ci ho voluto fare. È un po’ come per un bambino fare la lista dei regali prima di Natale: quasi più bello del giorno di Natale stesso.
Mettermi lì prima con il phon, poi con il pennello, con una buona musica di sottofondo, mi rilassa.
Quando abbiamo visto la barca di Genova, per mio nonno era perfetta: aveva solo due tavole di teak a centro barca, molto più modeste di un intero capodibanda. Io ero di tutt’altro avviso. Avevo in mente di ricreare anche su questa lo stesso capodibanda che “incorniciava” quella vecchia. È stato in realtà per questo progetto che andai a comprare quei tavoloni di mogano, che ho poi usato per tutte le listellature che avete visto.
Del resto, ditemi voi se non era una bellezza:
Tornando a noi, c’era anche un minimo di ragione tecnica per smontare quelle tavole originali (di cui non trovo foto): erano circa due centimetri più strette dello spessore della murata, questo significava che per sverniciare le estremità si andava ogni volta a raschiare il gelcoat con la spatola. Una vera rottura.
La tavola di legno sostitutiva avrebbe dovuto sbordare di un centimetro oltre la murata, sia verso l’interno che verso l’esterno, in modo che non ci fossero problemi con la sverniciatura.
Il progetto consisteva di 3 fasi:
-il primo anno: sostituire le due tavole e continuare verso poppa;
-il secondo anno: continuare verso prua;
-il terzo anno: aggiungere dei corsi verticali, sostituendo l’orribile bottazzo in gomma che c’è, e, magari, perché no, mettere un bottazzo in corda.
Per prima cosa ho quindi smontato le tavole:
Poi ho fatto una dima precisa in carta ricalcando la curvatura della murata, da cui ho ricavato i tagli delle tavole di legno. Il falegname da cui mi appoggiavo riusciva a fare tavole larghe massimo 21/22 cm, nonostante i tavoloni fossero 50/60 cm, quindi dovevo ridurre la lunghezza dei tratti dove la curvatura era più accentuata.
Volevo realizzare uno spessore di 2 cm, ma avevo paura che poi lungo le venature, con le intemperie, si spaccasse. Inoltre, dovendo giuntare di testa più tavole, sicuramente non sarebbe venuto ben raccordato. Quindi sono andato su una sorta di lamellare autocostruito, incollando con colla rossa due tavole da 1 cm, sfalsando, fra tavola superiore e inferiore, le giunzioni di testa, in modo che venisse un unico pezzo ben raccordato anche una volta collocato su una superficie curva: invece di scaricare le tensioni solo sulle giunzioni, si sarebbe incurvato omogeneamente.
Dato l’ingombro di tutto il blocco una volta assieme, ho costruito 3 pezzi separati, che sarebbero stati poi incollati solo una volta in posizione sulla barca.
La collocazione finale è stata fatta con viti autofilettanti nascoste sotto tasselli in teak, e incollato con un adesivo poliuretanico igroindurente che aveva il vantaggio di “andare a gonfiarsi” e riempire lo spazio fra VTR e legno. Infatti, dato che sul bordo esterno c’era il profilo del bottazzo che faceva spessore, le tavole non aderivano bene alla VTR.
Anche in questo caso, gli errori sono molti: per risparmiare legno ho cercato di sfruttare il più possibile le tavole che avevo, ma fra il progetto e la messa in opera c’è sempre differenza, e in alcuni punti ho dovuto aggiungere qualche pezzo di mogano resinato per colmare quel mezzo centimetro che, qua e là, mi mancava. La colla rossa è stato un altro errore, come ho già detto in un altro post: troppo rigida, col tempo in alcuni punti è partita. Adesso, per gli incollaggi di legni uso una resina epossidica che rimane leggermente gommosa e si adatta ai movimenti del legno.
Ma, soprattutto, il problema più grande…è che mi sono fermato alla prima fase! Non sono ancora riuscito a completare il capodibanda verso prua. Anche perché ho finito il legno. Se a qualcuno avanzassero delle tavole di mogano mi faccia un fischio!
La vecchia barca aveva un bellissimo capodibanda in mogano (che aveva realizzato proprio mio nonno), che culminava su un dritto di prora tipico dei gozzi liguri (che io un giorno ho stroncato piantandomi dritto in banchina, ma questa è un’altra storia…). Essendo verniciato a flatting, ogni anno andava sverniciato con la pistola termica, carteggiato, e poi date almeno 2 mani, meglio 3, di flatting nuovo. Mio nonno, mettici l’età, mettici l’abitudine, non ne aveva più voglia, e giurava ogni volta che se mai avessimo cambiato barca, avrebbe dovuto essere solo “di plastica”. 0 legno.
Per me, invece, preparare la barca prima di ogni stagione è una parte fondamentale di questa passione tanto quanto l’andare per mare stesso. Lo avrete capito dai numerosi interventi che ci ho voluto fare. È un po’ come per un bambino fare la lista dei regali prima di Natale: quasi più bello del giorno di Natale stesso.
Mettermi lì prima con il phon, poi con il pennello, con una buona musica di sottofondo, mi rilassa.
Quando abbiamo visto la barca di Genova, per mio nonno era perfetta: aveva solo due tavole di teak a centro barca, molto più modeste di un intero capodibanda. Io ero di tutt’altro avviso. Avevo in mente di ricreare anche su questa lo stesso capodibanda che “incorniciava” quella vecchia. È stato in realtà per questo progetto che andai a comprare quei tavoloni di mogano, che ho poi usato per tutte le listellature che avete visto.
Del resto, ditemi voi se non era una bellezza:
Tornando a noi, c’era anche un minimo di ragione tecnica per smontare quelle tavole originali (di cui non trovo foto): erano circa due centimetri più strette dello spessore della murata, questo significava che per sverniciare le estremità si andava ogni volta a raschiare il gelcoat con la spatola. Una vera rottura.
La tavola di legno sostitutiva avrebbe dovuto sbordare di un centimetro oltre la murata, sia verso l’interno che verso l’esterno, in modo che non ci fossero problemi con la sverniciatura.
Il progetto consisteva di 3 fasi:
-il primo anno: sostituire le due tavole e continuare verso poppa;
-il secondo anno: continuare verso prua;
-il terzo anno: aggiungere dei corsi verticali, sostituendo l’orribile bottazzo in gomma che c’è, e, magari, perché no, mettere un bottazzo in corda.
Per prima cosa ho quindi smontato le tavole:
Poi ho fatto una dima precisa in carta ricalcando la curvatura della murata, da cui ho ricavato i tagli delle tavole di legno. Il falegname da cui mi appoggiavo riusciva a fare tavole larghe massimo 21/22 cm, nonostante i tavoloni fossero 50/60 cm, quindi dovevo ridurre la lunghezza dei tratti dove la curvatura era più accentuata.
Volevo realizzare uno spessore di 2 cm, ma avevo paura che poi lungo le venature, con le intemperie, si spaccasse. Inoltre, dovendo giuntare di testa più tavole, sicuramente non sarebbe venuto ben raccordato. Quindi sono andato su una sorta di lamellare autocostruito, incollando con colla rossa due tavole da 1 cm, sfalsando, fra tavola superiore e inferiore, le giunzioni di testa, in modo che venisse un unico pezzo ben raccordato anche una volta collocato su una superficie curva: invece di scaricare le tensioni solo sulle giunzioni, si sarebbe incurvato omogeneamente.
Dato l’ingombro di tutto il blocco una volta assieme, ho costruito 3 pezzi separati, che sarebbero stati poi incollati solo una volta in posizione sulla barca.
La collocazione finale è stata fatta con viti autofilettanti nascoste sotto tasselli in teak, e incollato con un adesivo poliuretanico igroindurente che aveva il vantaggio di “andare a gonfiarsi” e riempire lo spazio fra VTR e legno. Infatti, dato che sul bordo esterno c’era il profilo del bottazzo che faceva spessore, le tavole non aderivano bene alla VTR.
Anche in questo caso, gli errori sono molti: per risparmiare legno ho cercato di sfruttare il più possibile le tavole che avevo, ma fra il progetto e la messa in opera c’è sempre differenza, e in alcuni punti ho dovuto aggiungere qualche pezzo di mogano resinato per colmare quel mezzo centimetro che, qua e là, mi mancava. La colla rossa è stato un altro errore, come ho già detto in un altro post: troppo rigida, col tempo in alcuni punti è partita. Adesso, per gli incollaggi di legni uso una resina epossidica che rimane leggermente gommosa e si adatta ai movimenti del legno.
Ma, soprattutto, il problema più grande…è che mi sono fermato alla prima fase! Non sono ancora riuscito a completare il capodibanda verso prua. Anche perché ho finito il legno. Se a qualcuno avanzassero delle tavole di mogano mi faccia un fischio!
Levante Ligure
Gozzo Italmare 640
Gozzo Italmare 640
conat (autore)
1
- 30/32
Capitolo 11 – Come farsi un pannello interruttori da 0
Dato che oggi piove e non posso resinare, ultimo (?) aggiornamento in attesa del varo stagionale, dopo il quale potrò fare il report sul grande lavoro fatto questo inverno. Non scrivo mai se prima non ho collaudato la modifica.
L’elettricista che aveva controllato la barca prima della consegna si era limitato, giustamente, su indicazione del precedente proprietario, a cambiare le batterie e fare in modo che tutto funzionasse.
Ma quasi subito, già il primo o il secondo anno, il pannello interruttori, cotto dal sole e dagli eventi si era praticamente sbriciolato. Sono stato quindi costretto a sostituirlo con un pannello standard, di quelli prefabbricati, di medio livello. Alla fine, avevo bisogno solo di qualche interruttore.
La prima cosa che ho constatato è che questi pannelli non te li regalano.
La seconda è che intervenire sui vecchi impianti ossidati non è semplice. In primo luogo, senza uno schema di riferimento, capire cosa aveva in testa chi ha cablato l’impianto originale non è semplice. Inutile dire che degli universali linguaggi elettrici in DC non c’era nulla. Tutti i fili erano utilizzati erano cavo bipolare per 220V, il classico blu e marrone dentro la guaina bianca. Non ero un esperto (non lo sono nemmeno adesso) e non capivo nulla di chi alimentava cosa. C’è da rendere atto che quantomeno erano di buona sezione.
Il secondo problema era la fatica a saldare a stagno, dato che l’anima in rame era molto ossidata. Le cose sarebbero migliorate se avessi usato dei faston, ma ancora non conoscevo la tecnologia fantascientifica rappresentata da una semplice crimpatrice.
In ogni caso, dopo un altro paio di stagioni, una o due utenze non funzionavano più. Non ho ancora capito cosa non andasse. Forse avrei potuto cercare di sostituire i singoli interruttori (ammesso di trovare quelli giusti), ma preferivo ripartire da un foglio bianco.
Per prima cosa ho investito in una buona pasta per saldare, un rocchetto di filo di stagno COL piombo (lo so, adesso non si dovrebbero più vendere, ma funzionano tanto meglio), una buona crimpatrice e una buona spelafili, ed infine una valigetta con diversi tipi di faston, rossi e neri, e fascette termorestringenti. Ah, e naturalmente cavi elettrici rossi e neri. I migliori investimenti in ambito elettrico. Si guadagna un sacco di tempo.
Ho ricablato praticamente tutto l’impianto ad eccezione della parte che alimentava le batterie, che comunque sono state spostate insieme all’interruttore stacca-batterie che era collocato in una posizione infame.
La parte più interessante è quella relativa al nuovo pannello interruttori.
Volevo un quadro semplice, su cui stessero almeno 6 utenze, aumentabili (fino a 10 in questo caso). Ognuna comandata da un semplice interruttore a levetta inox ON-OFF, senza spie o altre cavolate, avvitabile, con una banana portafusibile in serie, in modo da poter escludere rapidamente un’utenza alla bisogna, e una spia, in parallelo all’interruttore, che indicasse i circuiti attivi.
Ho quindi preso una piastra inox AISI 316, tagliata e forata per ospitare (attualmente) 6 interruttori con filettatura da 10 mm.
I due più alti sono col ritorno automatico allo stato OFF per controllare manualmente la pompa di sentina e la sirena. I 4 in basso sono standard. Al centro c’è spazio per altri 4 fori (e relativi interruttori).
Affianco ad ogni levetta c’è la sua spia da 5 mm, collegata in parallelo. Ne ho comprate una mazzetta su Aliexpress, per poterle cambiare indipendentemente se una si fosse bruciata. Casualità vuole che, da quando ho fatto questa modifica, non ho più avuto spie bruciate (toccando ferro).
Parola d’ordine: modularità. Salta un interruttore, si cambia. Si brucia una spia, si cambia solo la spia. Si brucia un fusibile? Si apre il portafusibile e si cambia.
Per tenere in posizione le spie e gli interruttori ho riciclato il vecchio plexiglass azzurro che proteggeva il vecchio quadro strumenti. Tagliato, forato e piagato con la pistola termica, sembra uscito così dalla fabbrica.
Chiaramente, è un po’ meno “di design” rispetto a quelli in commercio. Ma questo minimalismo industriale, alla fine, non stufa e non mi dispiace.
Dato che oggi piove e non posso resinare, ultimo (?) aggiornamento in attesa del varo stagionale, dopo il quale potrò fare il report sul grande lavoro fatto questo inverno. Non scrivo mai se prima non ho collaudato la modifica.
L’elettricista che aveva controllato la barca prima della consegna si era limitato, giustamente, su indicazione del precedente proprietario, a cambiare le batterie e fare in modo che tutto funzionasse.
Ma quasi subito, già il primo o il secondo anno, il pannello interruttori, cotto dal sole e dagli eventi si era praticamente sbriciolato. Sono stato quindi costretto a sostituirlo con un pannello standard, di quelli prefabbricati, di medio livello. Alla fine, avevo bisogno solo di qualche interruttore.
La prima cosa che ho constatato è che questi pannelli non te li regalano.
La seconda è che intervenire sui vecchi impianti ossidati non è semplice. In primo luogo, senza uno schema di riferimento, capire cosa aveva in testa chi ha cablato l’impianto originale non è semplice. Inutile dire che degli universali linguaggi elettrici in DC non c’era nulla. Tutti i fili erano utilizzati erano cavo bipolare per 220V, il classico blu e marrone dentro la guaina bianca. Non ero un esperto (non lo sono nemmeno adesso) e non capivo nulla di chi alimentava cosa. C’è da rendere atto che quantomeno erano di buona sezione.
Il secondo problema era la fatica a saldare a stagno, dato che l’anima in rame era molto ossidata. Le cose sarebbero migliorate se avessi usato dei faston, ma ancora non conoscevo la tecnologia fantascientifica rappresentata da una semplice crimpatrice.
In ogni caso, dopo un altro paio di stagioni, una o due utenze non funzionavano più. Non ho ancora capito cosa non andasse. Forse avrei potuto cercare di sostituire i singoli interruttori (ammesso di trovare quelli giusti), ma preferivo ripartire da un foglio bianco.
Per prima cosa ho investito in una buona pasta per saldare, un rocchetto di filo di stagno COL piombo (lo so, adesso non si dovrebbero più vendere, ma funzionano tanto meglio), una buona crimpatrice e una buona spelafili, ed infine una valigetta con diversi tipi di faston, rossi e neri, e fascette termorestringenti. Ah, e naturalmente cavi elettrici rossi e neri. I migliori investimenti in ambito elettrico. Si guadagna un sacco di tempo.
Ho ricablato praticamente tutto l’impianto ad eccezione della parte che alimentava le batterie, che comunque sono state spostate insieme all’interruttore stacca-batterie che era collocato in una posizione infame.
La parte più interessante è quella relativa al nuovo pannello interruttori.
Volevo un quadro semplice, su cui stessero almeno 6 utenze, aumentabili (fino a 10 in questo caso). Ognuna comandata da un semplice interruttore a levetta inox ON-OFF, senza spie o altre cavolate, avvitabile, con una banana portafusibile in serie, in modo da poter escludere rapidamente un’utenza alla bisogna, e una spia, in parallelo all’interruttore, che indicasse i circuiti attivi.
Ho quindi preso una piastra inox AISI 316, tagliata e forata per ospitare (attualmente) 6 interruttori con filettatura da 10 mm.
I due più alti sono col ritorno automatico allo stato OFF per controllare manualmente la pompa di sentina e la sirena. I 4 in basso sono standard. Al centro c’è spazio per altri 4 fori (e relativi interruttori).
Affianco ad ogni levetta c’è la sua spia da 5 mm, collegata in parallelo. Ne ho comprate una mazzetta su Aliexpress, per poterle cambiare indipendentemente se una si fosse bruciata. Casualità vuole che, da quando ho fatto questa modifica, non ho più avuto spie bruciate (toccando ferro).
Parola d’ordine: modularità. Salta un interruttore, si cambia. Si brucia una spia, si cambia solo la spia. Si brucia un fusibile? Si apre il portafusibile e si cambia.
Per tenere in posizione le spie e gli interruttori ho riciclato il vecchio plexiglass azzurro che proteggeva il vecchio quadro strumenti. Tagliato, forato e piagato con la pistola termica, sembra uscito così dalla fabbrica.
Chiaramente, è un po’ meno “di design” rispetto a quelli in commercio. Ma questo minimalismo industriale, alla fine, non stufa e non mi dispiace.
Levante Ligure
Gozzo Italmare 640
Gozzo Italmare 640
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