Vernacolo Romanesco (da wikipedia)

Capitano di Fregata
labarcarolla (autore)
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La terminologia "sconcia" nel vernacolo romanesco [modifica]
In un contesto linguistico che privilegia il ricorso alla frase volgare e colorita, una posizione di rilievo è ovviamente assunta dal frequente ricorso, nel vernacolo romanesco, al richiamo di parti anatomiche e sessuali, usato anche in questo caso senza alcun preciso riferimento al significato intrinseco (comunque volgarizzato) del termine. Abbiamo così “ciccia ar fondo schiena!” (=”non me ne importa niente”) e “bucio de fondo schiena”, anche semplicemente “bucio” o “fondo schiena”, sempre traducibile con “fortuna”, spesso accompagnato dall’inequivocabile gesto dell’indice e pollice aperti delle due mani, che precisano la maggiore o minore quantità di buona sorte in funzione dell’ampiezza della circonferenza che suggeriscono. Da notare che lo stesso significato verbale viene assegnato anche al solo gesto.

L’adulatore è un “leccaculo”, e quando subisce passivamente una prepotenza o si sottomette pavidamente alle situazioni o alle persone, magari scendendo a compromessi poco dignitosi, si “appecorona” (=si mette carponi). Un individuo particolarmente sfrontato e dotato di faccia tosta e quindi privo di vergogna, ha la “faccia com’er fondo schiena” che dovrebbe pertanto provvedere a nascondere. Il dialetto romanesco, che non si preoccupa di cercare sinonimi per frasi “indecenti”, mostra di possedere invece una grande dose di fantasia nel trovare forme alternative a concetti sconci, che lasciano però inalterata l’immagine originaria; così, lo stesso significato della frase precedente viene illustrato da locuzioni come “fasse er bidè ar grugno”, “mettese le mutanne in faccia” o “soffiasse er naso co’a cart’iggienica”. Sempre sullo stesso soggetto troviamo “pijà p’er fondo schiena” (=prendere in giro), “arzasse cor fondo schiena pell’insù” (=svegliarsi di cattivo umore), “vàttel’ a pijà ‘n der fondo schiena” (come “va’mmor’ammazzato!”) e “rodimento de fondo schiena” (=nervosismo, arrabbiatura). Di quest’ultima espressione esiste una variante estremamente raffinata, a dimostrazione dei livelli di fantasia e disinibizione che il popolano romano è in grado di raggiungere nella trasposizione concettuale del vernacolo: “che te rode, la piazzetta o er vicolo der Moro?”. A Roma, nel quartiere Trastevere, il vicolo o via del Moro è una strada stretta e piuttosto poco luminosa che collega tra di loro piazza Trilussa e piazza Sant’Apollinare; la frase precedente è pertanto una trasformazione abbastanza intuitiva del concetto che verrebbe altrimenti espresso con un '“che te rode, er fondo schiena o er bucio der fondo schiena?”.

Il termine “c***o” viene usato soprattutto come rafforzativo in frasi esclamative (“ma che c***o stai a ffà!”) , dove si esprime anche un accenno di disappunto, e un po’ meno nelle interrogative (“’ndo c***o stai a annà?” = “dove vai?”). Usato da solo è un’esclamazione che esprime sorpresa e meraviglia. Altro frequentissimo significato del vocabolo è quello di “assolutamente nulla” (“nun capisci 'n c***o!”, “nun me frega 'n c***o!”, ecc.). Varianti del termine sono la “c*****a!”, col preciso significato, derivato dal precedente, di “sciocchezza”, “stupidaggine”, “roba di poco conto”; “cazzaro”, chi fa o dice c*****e; “incazzatura” (=arrabbiatura); “cazzaccio” o “cazzone”, individuo stupido o insignificante. Quest’ultima lettura viene anche associata, in modo molto più colorito, all’epiteto “testa de c***o”, che assume però una connotazione più pesante, al limite dell’insulto. L'espressione "E sti c***i?" indica il disinteresse, senza la "E" iniziale e l'interrogativo ha svariati usi -persino contraddittori- derivati dal contesto

Abbondante anche l’uso e le relative variazioni su “c****e”, propriamente individuo stupido e incapace, da cui “a cojonella” (=per scherzo, per gioco), “cojonà” (= prendere in giro, con una sfumatura di significato meno forte di “pijà p’er fondo schiena”), “me c****i!” (=perbacco!, addirittura!, davvero!), da non confondere con la forma verbale precedente, che assumerebbe il significato di “mi stai prendendo in giro!”, “rompicojoni” (=rompiscatole, fastidioso, noioso), “un par de c****i” (=assolutamente nulla) e la minaccia “nun rompe li c****i” rivolta a chi sta recando fastidio e disturbo al limite della sopportazione. A dimostrazione di quanto la terminologia grossolana del dialetto romanesco sia svincolata dal significato intrinseco del vocabolo si pone la frase “avecce li c****i” che è indifferentemente attribuito a uomini e donne nel senso di persona estremamente brava, preparata o dotata in un particolare settore.

Il linguaggio vernacolare non risparmia ovviamente gli attributi femminili. E così: “f****a!” esclamazione di meraviglia ma anche “complimenti!”, “fregnaccia” (=sciocchezza, stupidaggine), “fregnone” (=ingenuo, sempliciotto, ma anche nel senso di troppo buono), “fregnacciaro” (=che le spara grosse, che dice stupidaggini), “fregno” o “fregno buffo” (=coso, attrezzo, oggetto strano) e “avecce le f****e” (=avere i nervi tesi, essere "in*****to").
La mancanza di qualcosa che si desidera è una parte indispensabile della felicità. (Bertrand Russell)
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